IMMAGINAZIONE, EMPATIA E NEURONI A SPECCHIO


"...Peter Brook ha dichiarato in un'intervista che con la scoperta dei neuroni a specchio le neuroscienze avevano cominciato a capire quello che il teatro sapeva da sempre. Per il grande drammaturgo e regista britannico il lavoro dell'attore sarebbe vano se egli non potesse condividere, al di là della barriera linguistica o culturale, i suoni e i movimenti del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di un evento che loro stessi debbono contribuire a creare. Su questa immediata condivisione il teatro avrebbe costruito la propria realtà e la propria giustificazione, ed è ad essa che i neuroni a specchio, con la loro capacità di attivarsi sia quando si compie un'azione in prima persona sia quando la si osserva compiere da altri, verrebbero a dare base biologica." Si legge questo nella prima pagina del libro di G.Rizzolatti e C.Sinigaglia, "So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni a specchio." (Cortina, 2006), in cui descrivono la loro interessante scoperta di rilevanza internazionale.
Di questo brano mi preme sottolineare l'affermazione che si tratta di mettere a fuoco la "base biologica" e non di fornire una "spiegazione biologica", ovvero che non si tratta della riduzione di un fenomeno complesso ad uno solo dei suoi aspetti, quello biologico, appunto, in quanto gli autori affermano a chiare lettere che questo aspetto ne rappresenta specificamente la base. Ciò non diminuisce di certo l'interesse di questa scoperta, piuttosto, a mio avviso, le conferisce il giusto valore e le attribuisce il posto che le spetta nel campo che comprende i tentativi di descrivere la complessità del vissuto umano.
E mi fa piacere che gli autori abbiano voluto introdurre il frutto del loro lavoro facendo riferimento a quell'importantissima manifestazione culturale rappresentata dal teatro. Il teatro, infatti, costituisce una somma di espressioni artistiche e, in questo senso, può essere considerato una delle più interessanti espressioni del desiderio di integrare e rappresentare, nell'insieme dei suoi vari aspetti, l'esperienza umana.
In un altro punto (p.3), gli autori, affermano che non si deve più parlare di "meri movimenti" ma sempre di "atti" quando si studia il comportamento motorio umano. Anche questa affermazione mi sembra degna di nota e di attenzione perchè appare animata anch'essa dal desiderio di rispettare la complessità umana. Un atto, infatti, è qualcosa che ha un'origine e un fine, ovvero, qualcosa che spalanca un mondo di affetti, di credenze e valori nonchè di condotte.
La parola "attore" deriva proprio dal verbo "agire" e definisce chi compie degli "atti". Se, dunque, ogni movimento ha un'origine e un fine, in quanto ha la dignità di "atto", il movimento stesso può essere definito, con termini teatrali, una "messa in scena" di noi stessi/e, e in questa definizione rientra anche la postura, come risultato del rapporto tra zone motorie, così come la mimica, la qualità dello sguardo e la qualità del suono della nostra voce. La corporeità, nel suo insieme di emozioni e azioni, risulta intrinsecamente espressiva.
"Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise (attraverso l'attivazione di specifici circuiti specchio): la percezione del dolore o del disgusto (per es.) attivano le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a provare dolore e disgusto. Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi." (p.4) Il sistema dei neuroni a specchio ci permette, dunque, di empatizzare - di provare le stesse cose -, ma fa ancora di più perchè ci permette, allo stesso tempo, di immaginare intenzioni, aspettative e motivazioni altrui e tutto questo "senza far ricorso ad alcun tipo di ragionamento, basandosi unicamente sulle proprie competenze motorie." (p.4)
Si tratterebbe di "un sistema di risonanza"(p.113) - quante volte ci ritroviamo ad usare nel lavoro bioenergetico questa parola "risonanza"! - e sarebbe alla base dell'esperienza di "uno spazio d'azione condiviso, all'interno del quale ogni atto e ogni catena d'atti, nostri e altrui, appaiono immediatamente iscritti e compresi senza che ciò richieda alcuna esplicita o deliberata azione conoscitiva."(p.127). In altre parole, si tratterebbe dell'instaurarsi di un "terreno di esperienza comune"(p.4), che potremmo anche definire una scena condivisa. Tale esperienza trova, dunque, immediatamente posto dentro di noi al di fuori del controllo cosciente, e, in un secondo momento, grazie al processo della narrazione che noi costruiamo insieme a qualcun/a altro/a, o anche da soli/e, ma sempre in previsione della comunicazione interpersonale, l'esperienza diventa cosciente e va a far parte della storia della vita e, quindi, fonda la parte cosciente della nostra identità (Adriana Cavarero, "Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione.", Feltrinelli, 2005).
E con questo veniamo ad una incursione nell'ambito della riflessione sul concetto di "coscienza". Quando diciamo, nel lavoro su noi stessi/e, che occorre ricongiungere il pensare e il sentire, mi sembra che spesso identifichiamo il pensare con l'attività cosciente, come se tutto il lavoro di organizzare l'esperienza fosse a carico dell'aspetto cosciente della personalità. Ma come abbiamo cominciato a mettere a fuoco, grazie agli accenni al lavoro di Rizzolatti e Sinigaglia, sembrerebbe che le cose stiano in tutt'altra maniera. Può essere interessante, a questo punto, aggiungere alle nostre fonti di riflessione l'interessante disamina di cosa non è la coscienza, offerta da Julian Jaynes nel suo libro "Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza." (Adelphi, 1984, pp.37-110).
In estrema sintesi, l'autore afferma, sulla base di fonti sperimentali, che:
- la coscienza non è l'intera attività mentale, al contrario la maggior parte dell'attività mentale si svolge benissimo senza il suo intervento;
- la coscienza non è una copia dell'esperienza, piuttosto è una ricostruzione dell'esperienza da un punto di vista esterno, di un osservatore;
- la coscienza non è necessaria per l'apprendimento, piuttosto "essa opera decidendo cosa va imparato, o creando regole per imparare meglio, o verbalizzando coscientemente certi aspetti del problema";
- la coscienza non è necessaria per il pensiero o il ragionamento, infatti, "le soluzioni appaiono improvvisamente come se saltassero fuori dal nulla". In particolare, Jaynes fa riferimento alle ricerche della Scuola del pensiero senza immagini di Wurzburg (Germania, primi del ''900) e agli esperimenti di Ach, Watt, Kulge e altri.
Sull'onda di queste letture, mi è venuto di immaginare la coscienza come il sole che nasce dal mare e vi si riimmerge, a seconda di quello che stiamo vivendo, ovvero se siamo tutt'uno/a con l'esperienza, tipo "io sono il mio corpo", la coscienza scompare; mentre se stiamo riflettendo sull'esperienza, tipo "Io ho un corpo", la coscienza emerge. Ho visto la coscienza come una struttura in emersione - il sottomarino di "Caccia a ottobre rosso"! -, ma subito dopo mi sono detta che sapeva tanto di "materialismo dialettico" e dei miei studi universitari negli anni '70, non era, infatti, di Engels l'affermazione: "La coscienza è la materia che riflette su se stessa."? Però, è stato piacevole sentirmi intera, con le mie fantasie di cinefila e con i miei ricordi giovanili. 27.03.08 LG

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